C’ERA UNA VOLTA UN RE INAPPETENTE… STORIA DEL GRISSINO
C’era una volta un Re, il primo di una dinastia di Duchi, i Signori della Savoia francese che, dopo aver eletto Torino Capitale del loro Ducato, vi portarono le loro spose, principesse imparentate con i Re di Francia e dunque di proprietà della Corona, come disse il Re Sole Luigi XIV.
Giovanissime e infelici, le principesse in terra straniera, barattate a fini dinastici, fattrici titolate delle Corti Europee, a Torino prendevano il titolo di Madame Reali.
Tra queste, la storia di Torino, ricorda nel 1700, la Madama Reale Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours, sposa trascurata e madre anafettiva del piccolo Duca nonché erede al trono Vittorio Amedeo II, bambino gracile e malaticcio, inappetente e più volte prossimo alla morte, tanto da incomodare la Sacra Sindone per un’ostensione a suo beneficio. Febbricitante, asmatico e con problemi gastrici, venne affidato dalla madre all’archiatra Teobaldo Pecchio che, memore dei suoi personali disturbi giovanili, individuò l’origine del male ducale nella pessima qualità del pane poco lievitato, la cui mollica poco cotta e ricca di umidità favoriva il proliferare dei batteri che provocavano i gravi disturbi intestinali. All’epoca la malsana “ghërsa”, che in piemontese significa “fila”, era la pagnotta allungata, mal impastata e mal cotta che nutriva tutti i piemontesi, nobili o plebei che fossero, cosi il medico ed il fornaio di corte Don Teobaldo Pecchi ed il panettiere Antonio Brunero, entrambi originari di Lanzo, nel 1679 trasformarono la pasta della ghersa. Questa, tirata ed assottigliata fino a essere ridotta ad un bastoncino ben cotto con pochissima mollica e acqua, diventò “ghersino” dalla crosta croccante, e dato che conteneva meno umidità, durava più a lungo del pane comune, non degenerava in muffe ed era più digeribile. Il cagionevole Duca, futuro re di Sicilia e Sardegna , guarì, fu risoluto verso la madre vedova, sua reggente e genitrice priva di senso materno, i suoi favoriti e i suoi consiglieri francesi. Sbaragliò poi l’esercito francese di Luigi XIV nell’epico assedio di Torino del 1706 facendo pronunciare allo sconfitto re «i Savoia non terminano mai una guerra sotto la stessa bandiera con cui l’ hanno iniziata». Riprogettò Torino per renderla all’altezza delle altre Corti Reali, dandole l’aspetto elegante e barocco che tuttora conserva e si meritò infine l’appellativo di “Volpe Sabauda.Mai si separarò dalla sua cesta di grissini, tanto che la vulgata sostiene che il suo spettro appaia nelle stanze della Reggia di Venaria, in sella al suo cavallo, avvolto dal profumo di bergamotto e con un grissino in mano. Il grissino, “star “indiscussa e tipica della tradizione culinaria locale, passò poi dalla corte alle panetterie di Torino e delle Langhe, preparato e venduto insieme ai 16 tipi diversi di pane del Piemonte. La sua preparazione, prima di essere meccanizzata, impiegava ben 4 persone: lo Stiror (colui che stira), il Tajor (colui che taglia), il Coureur (colui che introduce) e il Gavor (colui che toglie), e veniva preparato nelle sue due varianti classiche: stirato e rubatà. Il più antico rubatà ha la caratteristica nodosità data dall’arrotolamento fatto a mano mente lo stirato viene allungato ed è più friabile. E’ spesso passato polverizzato all’esterno con la farina di mais per evitare che i grissini si attacchino tra loro o alla teglia durante la cottura e conferisce extra croccantezza. Apprezzato in tutto il modo nelle sue innumerevoli varianti, oggi il grissino ha una giornata dedicata, infatti l’ultimo venerdì di ottobre si celebra il “Breadstick Day”. Mario Soldati, osservava che “pur essendo rifatto dappertutto in Italia e nel mondo, non può essere esportato perché, anche soltanto a cinquanta chilometri da Torino, non è più lui”. Infatti Napoleone, commensale frettoloso e distratto a tavola, ma ghiotto consumatore di grissini, dovette organizzare un corriere periodico per ricevere i “petits bâtons de Turin elegant et savoreux “, perché i panificatori piemontesi da lui inviati a Parigi non riuscirono ad eguagliare quelli torinesi. Sfiziosi e appetitosi conquistarono le corti…in barba all’etichetta il re sabaudo Carlo Felice li sgranocchiava, impastati con polpa di trota, tra i velluti del Teatro Regio, incurante del fastidio che provocava con il suo continuo sgranocchiare, Il re Carlo Emanuele III li portò in luna di miele, in uno speciale contenitore, e Maria Felicita di Savoia venne dipinta con l’inseparabile grissino e soprannominata “la principessa del grissino, mentre l’imperatrice Maria Luisa d’Austria li amava spezzettati nel brodo. Il grissino fu l’ingrediente essenziale nella “supa barbeta”, in origine piatto unico della cucina valdese, i cui predicatori “barbet” dalle valli del piemonte si spostarono a predicare in tutta Europa. I grissini, dunque sono divenuti un’icona piemontese, tanto da essere deposti nella “scatola de tempo” nello scavo ai piedi dell’obelisco eretto nel 1853 con la sottoscrizione promossa dalla Gazzetta del Popolo, per celebrare le Leggi Siccardi che limitavano i privilegi ecclesiastici. La scatola di latta conserva elenco dei sottoscrittori del monumento, una copia delle leggi siccardiane, i numeri 141 e 142 della Gazzetta del Popolo, qualche moneta, semi di frumento e di riso, una bottiglia di “vino ordinario del paese” (barbera) e «quattro pezzi di pane grissino. La “legge è uguale per tutti” recita l’iscrizione, e il grissino spostandosi dalle corti al forno sotto casa, ne sottoscrive la sacrosanta imparzialità.
Testo e foto di Lisa